Le radici del Progetto ARCA

A Savino, Palmira e Claudio

VISION

Un uomo consapevole dei propri limiti, che, con parole, idee e azioni contribuisca a un nuovo umanesimo e al rinascimento del pensiero, della vita, della bellezza.
Una comunità in viaggio verso un mondo che si rigenera.

MISSION

Ripensare il pianeta a partire da uno degli elementi essenziali per la nostra vita, insieme ad aria e acqua: il SUOLO.

Curare il SUOLO con attenzione e rispettarlo, con l’obiettivo di rigenerarlo e di tutelare anche noi stessi. Una vocazione per ottenere ciò che ci sta a cuore da sempre, una terra buona che possa produrre un cibo sano.

Cambiare quel modello di agricoltura poco attento al territorio che, soprattutto in collina, ha provocato, in certi casi, danni irreparabili; lavorando tutti insieme, Consumatori, Agricoltori e Istituzioni, come attori principali del cambiamento che ci viene richiesto.

Agire affinchè ognuno contribuisca responsabilmente e coscienziosamente, perchè il percorso verso la sostenibilità e il benessere socio-ambientale non rimanga astratto o ideale, ma divenga concreto ed effettivamente praticabile.

L’uomo, l’imprenditore, il viaggiatore

Bruno Garbini nasce nel 1947 a Castelplanio, nel cuore della vallesina, da una famiglia di origini contadine. Ancora oggi, con orgoglio, riconosce sempre di essere venuto al mondo “sopra una stalla”. Dopo aver frequentato l’Istituto Tecnico Commerciale e a seguito di una breve esperienza presso la Cassa di Risparmio di Jesi, entra nella piccola attività avicola artigianale del padre Savino. Sin dall’inizio concepisce l’azienda come una piattaforma di cambiamento e sviluppo per il territorio: l’orientamento verso la responsabilità sociale, verso la famiglia, i collaboratori e lo spirito vocato all’innovazione, saranno il suo faro e motivo di successo per trent’anni a seguire. Nel corso degli anni ‘70 intensifica una strategia di forte espansione, attraverso lo sviluppo dell’intera filiera e la sua integrazione verticale. Nascono il mangimificio, il mattatoio, le sale di lavorazione; si espandono gli allevamenti nel territorio con la formula della soccida, si stipulano contratti di coltivazione con i contadini per la produzione soprattutto di sorgo e si inizia la commercializzazione con il Marchio Garbini. Ma è con la visita delle grandi aziende avicole d’oltre oceano nel 1981 che avviene la svolta fondamentale: Bruno Garbini comprende l’importanza del marketing e della comunicazione, il valore dei nuovi media e soprattutto del mezzo televisivo. Sono di quegli anni le campagne pubblicitarie che hanno segnato un’epoca nella nostra regione, con il “Marchigianello” e con i “Polli Garbini”, facendo espandere Clientela e fatturato a livello nazionale. La missione: offrire al mercato l’alta qualità e la salubrità di prodotti cui si abbina una forte ispirazione alla tradizione gastronomica marchigiana. La volontà di farsi garante di prodotti genuini e naturali senza compromessi, l’impegno nel salvaguardare la salute del consumatore e l’intuizione che essa sia imprescindibile dalla salute dell’ambiente, lo portano a concepire, nel 1988, il Progetto ARCA, acronimo di Agricoltura per la Rigenerazione Controllata dell’Ambiente. “Suolo sano, cibo sano, gente sana”, affermava in TV intervistato da Mino Damato nel 1989. Ma i tempi non erano ancora maturi e nonostante gli sforzi notevoli, anche economici, la sensibilità ambientale di consumatori, istituzioni e uomini politici era di là da venire e così il Progetto ARCA fu sospeso nel 1992. Individuato nella gastronomia fresca il futuro dell’azienda, dà incarico a una banca d’affari di acquisire un’azienda in quel campo. In quegli anni si indaga la possibilità di sviluppare ulteriormente la parte gastronomica, si aprono uffici commerciali in Europa, si acquisiscono aziende di produzione di uova e incubatoi. Nel 2000 si presenta l’opportunità di vendere l’azienda al Gruppo Arena, storico big player del mercato food nazionale ed europeo. Bruno cambia vita e per quindici anni coltiva ed arricchisce la sua passione per i viaggi culturali e l’arte. Nel 2015 con l’amico di sempre Enrico Loccioni e il concorrente storico Giovanni Fileni scocca una scintilla inimmaginabile e i tre imprenditori-contadini, innamorati della loro terra, ridonano vita al Progetto ARCA. Nel 2016, nasce Arca Benefit Srl una delle prime società benefit in Italia, caratterizzata dal fatto che, insieme agli utili, si persegue il beneficio comune. Oggi Bruno Garbini, oltre che titolare della Bruno Garbini Srl, è Presidente di Arca Benefit Srl ed è impegnato a tempo pieno nell’implementazione del progetto di rigenerazione delle colture e delle culture. Con una nuova visione allargata di bacino idrografico, generando servizi ecosistemici, creando ponti con i giovani agronomi, coinvolgendo le istituzioni, le associazioni e i cittadini nella divulgazione di nuovi metodi per un’agricoltura più attenta alla rigenerazione del suolo, alla salute dell’utilizzatore finale dei cibi, alla sostenibilità economica. Obiettivo più alto: contribuire alla valorizzazione e allo sviluppo del territorio che tanto gli ha dato, creando una nuova consapevolezza del suo valore e delle sue potenzialità.

Garbini, Tradizione delle Marche

Potrebbe essere l’inizio di una favola, invece è il capitolo primo di una storia di oggi. L’ambiente della favola e della storia è quello di una quieta collina che guarda il sole dell’alba con la cornice sud di un fiume che, uscito da poco dalla gola appenninica della Rossa, guadagna la piana come tutti i fiumi del mondo. Il fondale è il paese in posizione egemone sul crinale, coi due campanili che trafiggono le nuvole, simbolo dei due poteri, quello laico del Comune e quello dedicato al santo Patrono, non sempre in armonia nonostante la preziosità dei bronzi che sostengono. A mezzacosta la casa colonica sta al centro della scena. Un microcosmo affaccendato in cui gli attori si muovono secondo il saggio copione in scena da secoli. La soluzione abitativa prevede il piano di mezzo destinato a camere e cucina, più la “bigattiera”, il granaio e la soffitta. Al primo piano, o meglio al pianterreno per restare nei termini urbani, la stalla, il deposito degli attrezzi e la cantina. La scala di accesso in genere è di fuori, un po’ balcone, un po’ salotto, ingentilita spesso da una vite rampicante o dal glicine o da una rosa maggiolina dai fiori piccoli e profumati. A specchio l’aia in mattoni, un riquadro sacrificale per i riti del calendario rurale. L’aia diventa “ara” e l’appropriazione vernacolare restituisce al piccolo spazio il senso più giusto alla destinazione. A seguire le stagioni vi venivano battuti i ceci e le fave, i fagioli e le cicerchie, vi veniva steso il granturco, arieggiandolo ripassando i solchi coi piedi nudi secondo la regola che s’era imparata dai vecchi. In autunno l’aia sapeva di vinaccia: vi si stendeva il materiale di risulta della vinificazione; a novembre il posto era occupato dalle ghiande. La scena ha ancora oggi l’elemento scenografico del pagliaio del fieno e della paglia e, accostato al filare di tamerici, il locale dove viene sistemata la pula, con i pali di sostegno infilzati a terra e alle pareti una fitta cortina di canne legate con un sottile filo di ferro. Vi si alloggiavano gli attrezzi d’uso corrente e, se c’era spazio, il biroccio, un due ruote tuttofare che merita un capitolo a parte. Sotto i piccoli gelsi dalle infiorescenze carnose e dolcissime, bianche e nere, gli alloggiamenti dei conigli. Oltre il recinto di canne, il campo, che dilaga, oltre l’orto odoroso con il pozzo conficcato nella vena, verso i querceti che delimitano la proprietà con i fossi e le siepi di biancospino. Il campo presenta le suggestioni di composte geometrie nell’alternanza cromatica e nei disegni delle piantagioni. Le maggesi sono percorse da solchi obliqui per la distribuzione delle acque e per il deflusso non devastante delle piogge: sono come le arterie nel corpo dell’uomo. Là dove c’era il grano, ora c’è il verde dell’erba medica e del trifoglio; più in là rosseggia la lupinella; il lungo rettangolo ocra ha inghiottito i semi del nuovo impianto e così da sempre, in obbedienza alle regole della rotazione secondo il manuale delle stagioni. La vigna ha le cure del giardino. I filari del verdicchio, alti e ariosi, alternano piante da frutto ad altre di sostegno. L’ulivo centenario ha il sacro rispetto di uomini e bestie intenti nella fatica dell’aratura. La casa è il centro dell’impresa: luogo di aggregazione e di verifica, dove il gioco delle parti non viene mortificato dalla inversione dei ruoli. La gerarchia esprime disciplina e affetto, nel rigore sacrosanto del dovere. Regno dell’uomo è la stalla, con la piccola apertura inferriata sulla porta per consentire il gioco dell’aria e per un controllo sulla salute delle bestie. La donna amministra il pollaio e raduna il suo patrimonio con il linguaggio consueto dell’ora della beccata. Allora un corri corri generale, dai pagliai a cupola, dalla pula soffice, dalle pozzanghere dell’ultima pioggia, dalla lotta con il lombrico impertinente, uno schiamazzare irriverente. Chi indugia viene spintonato da chi ha maggior foga e tutti per arrivar primi sulla manciata di granaglie sparsa con il gesto ampio della benedizione. Un tempo la “capoccia” raccoglieva le uova e le portava in paese, quale merce di scambio, per il rifornimento di sale e fiammiferi e, se c’era l’avanzo, un mezzo toscano per l’uomo. Qualche volta sacrificava sulla bilancia del bottegaio un promettente galletto quale contropartita per sardelle, aringhe e baccalà. Poi, i tempi sono cambiati. Il paese è sceso a valle. Le donne sono andate in fabbrica. I figli studiano e sui campi sono rimasti i vecchi. Al patrimonio di saggezza e cultura mezzadrile fu dato anche lo schiaffo della cattiva memoria. Per accorgersi, adesso, che avevano ragione loro. L’economia circolare di cui si parla oggi ha come archetipo la casa colonica di un tempo con le sue pratiche forgiate da un secolare collaudo. Tecniche e sapienza che hanno generato una bellezza da riscoprire. Così che la verde collina invece di spopolarsi possa mantenere l’equilibrio tra uomo e natura com’era sempre successo. Le antiche intuizioni del mezzadro trovano una traduzione manageriale che è modello a se stessa. Un buon contadino che sa fare il suo mestiere è anche un saggio intenditore. Così, la campagna di quella parte di Marca che si attesta sulla media valle dell’Esino sta conoscendo una seconda conversione dopo quella impressa dai laboriosi benedettini e camaldolesi che disboscarono, impiantarono e allevarono, guadagnandosi la santità con l’onestà e la fatica. Si perché la favola è finita, ora comincia la storia.